venerdì 24 febbraio 2012

Intervento “Docu-fiction-stragi nei romanzi di Macchiavelli e Sarasso e altri”


Per gentile concessione dell'autore Graziano Braschi, pubblico l'intervento, letto in forma ridotta presso la Biblioteca Forteguerriana domenica 29 gennaio 2012 al convegno "Mafie e terrorismo" organizzato dall'Associazione Amici del Giallo di Pistoia e dalle biblioteche cittadine.


Precisazioni iniziali e crediti

Intanto è necessario dire qual è il significato della parola docu-fiction. Con docu-fiction s'intende la combinazione di un documentario con la fiction. Termine inglese, quindi, che riguarda il cinema e la televisione: in definitiva un documentario contaminato con elementi fictional, di finzione.
In questo intervento lo intendo invece (e così lo hanno inteso molti altri) esteso alla letteratura e al fumetto.
Una seconda precisazione. Ho scelto i romanzi di Loriano Macchiavelli e Simone Sarasso perché influenzato, in Rete, da un gruppo di lettura impegnato nella discussione su un graphic novel molto ben riuscito: “La strage di Bologna” (sceneggiatura di Alex Boschetti, disegnato da Anna Ciammitti, edito da Becco Giallo) .
Le considerazioni emerse nel gruppo di lettura mi erano sembrate convincenti proprio per la sostanziale emblematicità adottata che partiva poi dalla “scia della lettura” di “Confine di stato” e “Settanta” di Sarasso e, soprattutto, da “Strage” di Macchiavelli: romanzi questi che potremmo definire di docu-fiction nel senso che narrano vicende reali; in questo caso legate alla storia dell’Italia degli anni ’60-’80, romanzando però i personaggi (i grandi e i piccoli) che sono per così dire “metaforizzati”, oltre che a romanzare vicende e particolari snodi dell'intera storia.

Il fumetto “La strage di Bologna” inizia alle 10.25 del 2 agosto 1980, giorno della strage alla stazione, per ripercorrere poi le ore e i giorni successivi ai tentativi di nascondere la verità, ai depistaggi, alle indagini e ai vari processi. Inoltre, in questo graphic novel, la prefazione di Carlo Lucarelli mi era sembrata subito chiarificatrice sulle difficoltà di affrontare i problemi narrativi della docu-fiction nel trovare l'equilibrio fra realtà e finzione. Ma di questo ne parlerò più avanti.

Come è nato “Strage” ?

Nulla di meglio che citare una parte della prefazione di Macchiavelli per l'edizione Einaudi 2010. Lo scrittore bolognese scrive: “Il titolo del mio primo romanzo con lo pseudonimo di Jules Quicher era “Funerale dopo Ustica”, che uscì nel 1989 per l'editore Rizzoli (a distanza di 9 anni dal tragico attentato, di cui ad oggi sono ufficialmente sconosciuti la motivazione, gli obbiettivi, gli esecutori, i mandanti di quella strage, una delle tante). Lo pseudonimo faceva parte del progetto proposto dall'editor della Rizzoli di quegli anni, che prevedeva la pubblicazione di tre romanzi complessivi: oltre a “Funerale dopo Ustica”, ci doveva essere “Strage” e “Un triangolo a quattro lati”. La ragione dello pseudonimo, secondo l'editor, un autore italiano, col nome italiano, non sarebbe stato credibile per questo tipo di narrativa. Il progetto funzionò con “Funerale dopo Ustica”, che fu un successo editoriale, ma non proseguì con “Strage”, che uscì il 28 maggio 1990, un lunedì, proprio mentre si celebrava a Bologna il processo d'appello contro gli esecutori della strage (reale!) del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Pochi giorni dopo, il 3 giugno, a seguito della denuncia di uno degli imputati nel processo d'appello in corso, il tribunale di Milano ordinò l'immediato sequestro di una copia del romanzo.”
Proseguo ora io dicendo che il denunciante, condannato per la strage nella sentenza di primo grado e poi assolto con sentenza definitiva, che compariva nell'opera, si ritenne diffamato. La casa editrice ritirò dalla circolazione tutte le copie del romanzo sull'intero territorio nazionale. La denunzia poi si tramutò in processo per Macchiavelli, alias ; il giudizio del tribunale di Milano, che doveva essere direttissimo, si trascinò fino al 15 ottobre del 1991.
Personalmente posso testimoniare, dopo un colloquio avuto con Loriano qualche anno dopo, di come l'autentica spada di Damocle del paventato risarcimento miliardario (sia pure in lire!) abbia pesato sui programmi successivi. Ecco a conferma questa sua frase: “Un anno e sei mesi per sapere che ne sarebbe stato della mia vita e della vita dei miei, e solo perché una storia del tutto inventata, anche se fortemente radicata nella realtà, aveva dato più fastidio di un'inchiesta giornalistica. Io continuo chiedermi il motivo: a rigor di logica dovrebbe essere il contrario. In fondo, un romanzo è solo un romanzo.”
Su questa considerazione finale, dissento dall'amico Loriano: un romanzo può essere altrettanto rivelatore, e quindi scomodo, di un'inchiesta giornalistica, proprio per le ragioni che in un suo fulminante e notissimo articolo Pasolini (“Corriere della Sera”, 14 novembre 1974) evidenziava: “Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere.
Così come dissento dal giudizio di Roberto Pirani e Massimo Carloni, amici stimatissimi: “Troppo didascalico dunque in certi passaggi e abbastanza inverosimile in altri, il romanzo non cattura appieno l'attenzione del lettore avvertito, sempre incerto se reagire alla partigiana provocazione intellettuale (anche qui il terrorismo di estrema sinistra è totalmente assente) o abbandonarsi senza scrupoli al ritmo avventuroso e rocambolesco tipico di certe fiction tv) .
Non è un caso che Valerio Evangelisti, recensendo “Strage” su Carmilla on-line dica: “Quanto alle bizzarrie del romanzo, sono poi tali? I processi sulla strage del 2 agosto ci hanno parlato (non entro nel merito della fondatezza delle sentenze) di terroristi vestiti alla tirolese, berretto piumato e bretelloni, di quelli che ballano dandosi pacche nel sedere. Portavano una bomba ferocemente letale. Una tale immagine, ai limiti dell’onirismo, supera in follia le soluzioni più ardite escogitate dall’autore per “colorare” il suo romanzo. Macchiavelli resta comunque ammirevole, come scrittore e come uomo. Sul primo piano, Strage, con i difetti che vi ho scorto, resta lettura appassionante, vertiginosa. Qualche occasionale momento di sconcerto non impedisce che l’intreccio seduca e ipnotizzi.” E detto da un rigoroso come Evangelisti mi è sembrato un grande elogio.

Ma veniamo a “Strage”...

La storia complessa e intricata di questo magnifico e “massiccio” romanzo (600 pagine fitte) comincia il 30 luglio 1980, di pomeriggio, quando arrivano a Bologna (con mezzi diversi) Jules Quicher, il protagonista, Arnaldo Falcione e Claudia Patroni. “Non si conoscevano, – scrive Macchiavelli – non si erano mai incontrati, ma erano destinati a incrociare le loro esistenze nel corso degli avvenimenti che avrebbero sconvolto la vita italiana. E non solo italiana”. Non si conoscono né subito si conosceranno, anche se “s'intravedono” fra loro (ho virgolettato “s'intravedono”, come atto visivo e mentale, per evidenziare un particolare andamento da spy story, qui molto efficace). Prologo lungo una settantina di pagine e oltre, dentro cui si aggiunge all'ultimo momento il colonnello Dalla Vita, altro protagonista delle indagini chiamiamole “ufficiali”, che sta comunicando con un sottoposto... quando la comunicazione s'interrompe: siamo a pagina 79, sono le 10.25 del 2 agosto 1980, quando l'esplosione dilania 85 persone e distrugge la sala d'aspetto di seconda della stazione ferroviaria di Bologna e danneggia gravemente i dintorni.
Macchiavelli diventa lapidario come uno storico impietrito dall'enormità del fatto: questo prima di esplodere nell'indignazione. “La nube di fumo nascose la stazione e fece buio attorno. Buio sulla città. All'esplosione seguì un silenzio innaturale di morte. La vita si fermò per un istante e per tutti. Poi per alcuni riprese, ma fu in incubo. Per altri non tornò. Non tornò per ottantacinque persone.”
E subito dopo, parla del protagonista e dei co-protagonisti: “Un colonnello dei carabinieri, una sociologa senza lavoro, un archeologo e un ex agente dei servizi di sicurezza in Francia (appunto Jules Quicher): quattro storie indipendenti e che fino a quel momento avevano seguito strade diverse, quattro vite che per caso si erano sfiorante, confluirono in un unica storia e in un'unica vita. Il calore dell'esplosione le fuse e le avviò in un unico crogiolo”.
Ma prima di proseguire con qualche cenno di trama di “Strage”, diciamo subito chi è il protagonista, Jules Quicher. E lo diciamo con le parole che apparirono sul risvolto di copertina di “Funerale dopo Ustica”: “esperto di problemi della sicurezza di una famosa multinazionale svizzera; desidera nel privato di vivere in pace, non per maniacale culto della riservatezza; cinquantenne (allora, nel 1980...), sposato con tre figli, vive in una villa su un lago della Svizzera; madre italiana e padre svizzero-francese, parla e scrive alla perfezione in italiano e francese, in inglese, tedesco e spagnolo”.
Su quest'ultima notizia, Macchiavelli ci ha fatto dell'ironia, dicendo che lui, al contrario di questo ipotizzabile alter ego, lui parla non sa quanto bene l'italiano e il dialetto del suo paesino sull'Appennino emiliano...
Proseguo poi nel descrivere a larghi cerchi la trama di questa “saga stragistica”. Dopo l'esplosione si affacciano via via gli ambienti e i personaggi inevitabilmente sospettabili, quelli della strategia della tensione italiana: la solita commistione (come hanno detto critici pur favorevoli all'opera dello scrittore bolognese ) “tra estremisti di destra, Servizi segreti deviati, politici chiacchierati, insaporita con l'aggiunta della mafia e di certi ambienti massonici” intesi come Male con la M maiuscola contro il Bene (che è formato dalla strana alleanza tra il già citato Quicher, il colonnello dei carabinieri Dalla Vita e l'extraparlamentare di sinistra sull'orlo della lotta armata Claudia Patroni). Vi sono cioè ingredienti da thriller internazionale, da spy story e persino da romanzo d'avventura: la Palermo della mafia; un misterioso falso ordine di frati, la compagnia dei frati Laurentiani, annidato in un castello sul Delta del Po; l'esotismo del paesaggio tropicale della Guyana francese, l'erotismo un po' troppo morboso della pasionaria e aspirante terrorista Claudia, eccetera eccetera.). Ed è vero che l'inserimento di schede che cercano di chiarire o comunque riassumere i dati salienti del fenomeno stragista mafioso e massonico, forse appesantiscono la narrazione.

“Settanta” di Simone Sarasso.

Come sapete il romanzo d'esordio di Sarasso è stato “Confine di stato” , ma qui parliamo esclusivamente di “Settanta” (seconda tappa, nelle previsioni dell'autore, di una trilogia), pubblicato nel 2009, non solo per mere ragioni di tempo, ma anche perché ne riassume le ragioni narrative ed ha gli stessi personaggi, resi ancor più metaforici (e quindi ancor più pieni della carica che li rende efficacemente espressione del Potere voluto con fanatica e folle determinazione) del romanzo d'esordio. Va detto anche che l'autore esercita il suo talento “multimediale” (illustratore per riviste underground) nel riproporre - quasi fosse un graphic novel, sul cui sviluppo poi si sia poi pentito - i volti di chi sta dietro (i veri “burattinai”?) tanto stragismo e tanto complottismo.
Il “massiccio” volume (quasi 700 pagine) è una furibonda corsa di un treno impazzito attraverso gli anni di piombo. Gli anni Settanta raccontati attraverso le voci di uno stragista, di un ladro, di un magistrato, di un attore di successo, un agente di spicco dei Servizi Deviati, l'enfat prodige della mala milanese. E ancora: un giovane giudice che viene dal Sud e l'astro nascente del poliziottesco italiano. E si potrebbe ancora continuare... I nomi di alcuni di questi personaggi? Andrea Sterling, L'Omino, il magistrato Incatenato, lo Svedese, il Gran Maestro, il Generale Brasco... e si potrebbe continuare. Va subito precisato che si tratta di personaggi, di cui è inutile e limitato chiedersi a quali personaggi reali lo scrittore ha voluto riferirsi. Lo stesso Sarasso ha precisato in un'intervista a Milano Nera web, che raccontare la storia di personaggi storici noti-notissimi sarebbe stato riduttivo, oltre che scontato. E in una bellissima nota in appendice al romanzo, intitolata significativamente La deriva, scrive: “Nessuno dei miei personaggi è reale. Anche se molti di loro assomigliano a personaggi storici, nessuno è identificabile con il proprio corrispettivo. Tanto per essere chiari: Ettore Brivido non è Renato Vallanzasca, Francesco Argento non è Aldo Moro, Nando Gatti non è Maurizio Merli, l'Omino non è Giulio Andreotti e lo svedese non è Henry Kissinger.”
Insomma “Settanta” è fiction che percorre il decennio degli Anni di Piombo. Sul lungo percorso del decennio, striato di sangue e violenze, vengono fatti sfilare: il tentato golpe Borghese, Piazza della Loggia (strage), l'Italicus (strage), la vicenda di Aldo Moro, la strage di Bologna, e tanto altro: un decennio febbricitante ed ossessionante (aggiungo: ossessionato).
Da qui la necessità d'intrecciare cronaca e finzione, anche trasferendo dentro la Strategia della tensione avvenimenti e personaggi che nulla o poco nella realtà ci sono entrati. Insomma (e non so se è presunzione...) al crocicchio delle narrazioni prima o poi tutti devono passare.
Nell'immediato futuro di Sarasso vi sarà il graphic novel “United We Stand”: da trailer che è girato appare evidente che il discorso su “l'Italia che non è mai stata innocente” continua sull'ormai collaudata sinergia fra immagine e testo.

Docu-fiction e romanzo, una contraddizione? E ancora: fra realtà (soprattutto quella che viene etichettata come “criminale”) e finzione ci può essere accordo? E ancora: fra verità e verosimiglianza (o se si preferisce, plausibilità) è possibile un rapporto se non virtuoso almeno accettabile?

Domande queste - e mi avvio alla conclusione – poste per discuterne, non certo per arrivare a conclusioni definitive. E che evidentemente se le sono poste gli scrittori esaminati e un prefatore d'eccezione com'è Carlo Lucarelli che sul graphic novel “La strage di Bologna”, di cui abbiamo parlato all'inizio, fra l'altro scrive: “Ci sono solo due cose che noi narratori possiamo fare di fronte a un evento come questo, a una cosa così sconvolgente, così orrenda e così importante per la nostra vita e per la nostra storia come quello che è avvenuto a Bologna il 2 agosto 1980. Sono le stesse due uniche cose che possiamo fare di fronte ad altri eventi altrettanto orrendi e determinanti come le stragi, il terrorismo, la Mafia o uno qualunque dei brutti segreti che segnano la nostra storia nazionale. Solo due cose. Possiamo far rivivere le emozioni e possiamo mettere in fila i fatti. Non possiamo scoprire misteri, quello lo fanno i poliziotti e i giornalisti, non possiamo stabilire verità, quello lo fanno i magistrati, non possiamo neanche cambiare le cose, quello dovrebbero farlo i politici, o esprimere giudizi, che spettano ai cittadini. Però quelle due cose là le possiamo fare. Far rivivere le emozioni e mettere in fila i fatti. […]. Mettere in fila i fatti provocando emozioni. Credo che altro, noi narratori, non possiamo fare”.
Macchiavelli e Sarasso insistono più volte nel distinguere fra docu e fiction le diverse peculiarità.
Ecco Macchiavelli su “Strage”: “Fantasia, nient'altro che ipotesi di un romanziere, basate su alcuni dati emersi nel corso delle tante indagini eseguite dai magistrati e che io ho utilizzato per aumentare l'interesse dell'intrigo e rendere più credibile la vicenda. Anche il finale è pura invenzione. Chi ritenesse di riconoscersi in uno dei tanti personaggi, uomo o donna, si tolga subito l'illusione di essere diventato un eroe da romanzo. I personaggi sono di fantasia esattamente com'era di fantasia Jules Quicher, esperto di problemi di sicurezza in una multinazionale svizzera”.
Ecco invece Sarasso nella nota iniziale di “Settanta”: “Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie al cento per cento. In esse compaiono personaggi e circostanze riferiti a un periodo della storia d'Italia, ma da intendersi come pura elaborazione di fantasia. Sono ugualmente frutto di invenzione le pagine sul modello di fonti documentarie di qualsiasi tipo. Un romanzo è solo un romanzo. Un romanzo è finzione. La Storia è tutta un'altra cosa”.
Precisazioni, come si vede, nette e reiterate, quasi per un invito preliminare ad essere prudenti da parte dell'editore e dell'autore. Ma, secondo me, soprattutto esprimono la necessità d'indicare le particolarità positive della narrativa come mezzo autonomo.
Insomma il richiamo è sempre a Io so di Pasolini e (scusate l'autocitazione) a quanto dicemmo Franco Cardini ed io ad un convegno fiorentino di diversi anni fa dal titolo significativo “Il Giallo, il Vero e il Nero”.
Diceva Cardini: “Ammesso che abbia ancora un senso parlare di generi e di sottogeneri letterari, e forse ce l'ha, si può davvero ipotizzare una (buona) scrittura d'un libro capace di tenerci svegli - perché provoca il nostro interesse oppure c'incute paura - e che al tempo stesso sia ragionevolmente e credibilmente verosimile sul piano della "verità-realtà" della storia? Qualcuno (anche il nostro Umberto Eco ne Il Nome della Rosa) ci ha dato l'impressione di rispondere almeno in parte di sì. A che livello s'incontrano, "giallisti", "noiristi" e storici? Nell'impianto generale della fabula immaginata (o liberamente ispirata alla "realtà")? Oppure nei dettagli, dove si dice abiti il diavolo? E allora: estraneità reciproca, confronto, lavoro d'equipe? La sfida è lanciata.”
Aggiungevo io: “Sulle linee parallele realtà-finzione romanzesca, il poeta Giovanni Raboni ha sostenuto che la prima può continuare a produrre fatti mentre la seconda a partorire senso. Ma questa non è sfrenata "licenza di narrare"? No, se lo scrittore si preoccupa di non tradire lo spirito di ciò che nella realtà accade; e che quindi, alla fine della lettura, il lettore abbia un'idea abbastanza plausibile del senso degli avvenimenti e del carattere di quell'epoca. Mi sembra emblematico l'aneddoto attribuito a Dumas: accusato di far violenza alla storia nei suoi trascinanti romanzi, il grande scrittore francese ammetteva che, sì, qualche volta si era macchiato di questa colpa, aggiungendo però che da questi atti di violenza erano nati bambini bellissimi.”

Possibile infinito elenco...

Naturalmente, come ci suggerisce un recente articolo di Benedetta Tobagi su La Repubblica , ci sarebbero altri romanzi e altre docu-fiction: dalla novità “La legge dell'odio”, Einaudi 2011, il romanzo di Alberto Garlini sulla destra xenofoba e violenta in Italia, lungo la lunga scia sanguinosa versata dalla strategia della tensione, al lontano classico sulla lotta armata comunista degli Anni di piombo nel romanzo “Nucleo Zero” del 1981 di Luce D'Eramo; o l'ancor più lontano e semprevivo “Occidente” (1975) di Ferdinando Camon; e naturalmente “Romanzo criminale” di De Cataldo, ecc. ecc. Infine, secondo me, un romanzo come “Il suggeritore” di Donato Carrisi.


22 febbraio 2012

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